Karma yoga. L'azione dello yogi

Ad ogni azione che noi svolgiamo corrisponde abitualmente uno stato interiore. Un’azione potrebbe essere svolta per sviluppare potere sulle persone, oppure per gareggiare con noi stessi, oppure per ottenere qualcosa, comunque quasi sempre noi svolgiamo un’azione per una motivazione e questa motivazione è legata ad un risultato. La ricerca del risultato stimola tutti quei processi mentali che sono legati all’ego e al senso dell’io. Quindi nell’esperienza della vita da quando siamo nati fino alla fine della nostra esistenza, noi non facciamo altro che potenziare questi aspetti della nostra mente, nutriamo l’immaginazione, l’illusione di poter decidere delle nostre vite, alimentiamo dei processi mentali che anche la nostra società valorizza, acquisizione, fama, giudizio, critica, desiderio di prevalere sugli altri, ecc. Questi aspetti della nostra vita mentale che noi quasi sempre annaffiamo sono dei semi, sono i saṁskāra, i residui delle esperienze, il potenziale dormiente nell’essere umano, che influenza il nostro pensiero, le nostre azioni, il nostro modo di pensare. Quindi abitualmente tutte le nostre azioni sono influenzate dai saṁskāra, a tal punto che viviamo in uno stato di ipnosi che non permette di comprendere il vero significato dell’esistenza. Lo yoga secondo lo spirito degli Yoga Sūtra ma anche della Bhagavadgītā praticato con consapevolezza e osservazione della completa comprensione della mente e dei sensi è il metodo piu efficace per la distruzione dei saṁskāra. Il karma-yoga non ci chiede di rinunciare all’azione, perché l’azione è parte integrante della vita di un essere umano, ma di rinunciare al risultato dell’azione. Essere nel mondo, partecipare alla vita del mondo ed entrare in relazione con gli oggetti dei sensi ma rinunciare all’attaccamento. Nella Bhagavadgītā, niṣkāmakarma è l’azione che viene svolta con totale rinuncia. Questa azione che viene svolta al meglio, proprio perché non assoggettata a dei processi mentali disturbanti, anche se non li ricerchiamo produce dei doni e lo sviluppo di una coscienza superiore. Ed ecco che si delinea l’importanza dell’esperienza pratica dello yoga, infatti perché questo processo venga messo in atto non è possibile agire con la forza di volontà e con la repressione, ma è nella pratica sul tappetino che noi dobbiamo iniziare a nutrire la nostra interiorità con differenti intenzioni, all’inizio sarà un lavoro mentale ma piano piano nel tempo, il vissuto esperenziale dello yoga appare ed appare in profondità.

L’azione per lo yogi, è un’azione che va fatta al meglio, con tutte le capacità e abilità che abbiamo a disposizione, non va fatta con disinteresse, ma quest’azione realizzata al meglio, va fatta senza ricercare il risultato. Nella pratica un haṭha-yogi esercita il karma-yoga, lo yoga dell’azione. Lo haṭha-yoga utilizza il corpo, e tutti noi sappiamo che il corpo è fonte di grande condizionamento, tutti i processi mentali sono legati al corpo, quindi siamo ancora più a rischio di chi non lo utilizza, ma lo spirito del karma-yoga significa ricordare che noi questo corpo lo dobbiamo utilizzare al meglio, dobbiamo essere attenti a come ci nutriamo, a come ci alimentiamo, a prendere la posizione migliore che il nostro corpo ci consente ma al tempo stesso ricordare che questo corpo non ci appartiene, che non siamo noi a decidere la vita del nostro corpo, e che dobbiamo imparare ad amare il nostro corpo senza essere critici, giudicanti ma imparare invece ad essere accoglienti.

Lo yogi nell’azione è estremamente vigile, attento al respiro, alle sensazioni del corpo, cosciente del risveglio dei processi egoici che nascono durante l’azione ma al tempo stesso impara a dimenticare se stesso. Non c’è disinteresse, noia, distrazione, lo yogi è totalmente nell’azione, centrato, in uno stato quasi meditativo. Dall’esterno la vita dello yogi potrebbe sembrare uguale a quella di qualsiasi essere umano, ma in realtà anche se le azioni sono le stesse ciò che importa è il sentimento e l’attitudine che guidano in lui l’azione. Non è l’azione che è importante, perché un’azione, anche un’azione di beneficenza, potrebbe nascondere un desiderio di riconoscimento e di grande gratificazione egoica. Le azioni possono essere tante e diverse ma senza cambiare la propria attitudine interiore non si raggiunge nessuna trasformazione significativa. Ciò che conta è svolgere un’azione con tutto il cuore, con tutta la nostra partecipazione, ma senza aspettarsi riconoscimenti e gratificazioni per ciò che facciamo, e allora siamo liberi, e ciò che arriva sono doni inaspettati. Si tratta di cambiare il nostro modo di vedere le cose e allora la pratica diventa una strategia per creare delle direzioni di pensiero, per guidare le nostre azioni e le nostre azioni sono gli āsana.

Nella pratica di āsana gli stati più profondi della nostra mente entrano in una relazione profonda col corpo, una relazione fatta di osservazione, di profondo silenzio, di profonda comunione ed espansione coscienziale che abbraccia la totalità della nostra esperienza. E allora sviluppiamo il karma-yoga, lo yoga dell’azione. Nella pratica lasciamo emergere i nostri processi mentali collegati ai saṁskāra, alle impressioni delle memorie inconsce, osservandoli e lasciandoli scorrere, senza fermarli, senza nutrirli, e al tempo stesso nutriamo la pratica con nuovi semi, gli yama e niyama, che aiutano la nostra mente nella liberazione dai condizionamenti. Durante un’ āsana gli yama e niyama, influenzano l’inconscio e il subconscio e perché ciò accada è necessario che la posizione sia stabile e confortevole, sthira shukham āsanam, se la posizione è confortevole l’inconscio accoglie, se invece noi forziamo il corpo reagisce creando maggiori tensioni che creano una frattura tra corpo e processi mentali.

Un āsana può essere tenuta secondo la forma del proprio corpo, ascoltando il corpo in profondità invece di forzarlo, sviluppando amore nei confronti delle caratteristiche del corpo. Quante volte possiamo nella vita trovarci nella condizione di ascoltare il corpo senza imporre i dettami della mente. E’ la nostra attitudine nei confronti del corpo che deve cambiare. Proviamo ad entrare nella pratica come fosse un rituale, impariamo ad agire col corpo seguendo la nostra natura individuale, il corpo è il risultato di un vissuto e a volte il nostro vissuto mentale non va nella direzione della nostra vera natura esistenziale. Dobbiamo imparare ad armonizzare col corpo, il respiro è il trait d’union tra corpo e inconscio. Osservare significa osservare le sensazioni ma anche quei processi mentali che ci contraddistinguono, potrebbe essere attivo in noi un processo mentale che va verso l’acquisizione, l’ambizione, oppure verso il giudizio, il confronto; impariamo innanzi tutto a vedere quali di questi aspetti che vivono in noi, noi nutriamo e, accogliamoli ma al tempo stesso sviluppiamo il vairāgya, la capacità di osservare senza venir travolti dall’osservazione o da una critica repressiva. Quei semi che potrebbero svilupparsi se non vengono annaffiati non si sviluppano, e già vedere è un passo enorme. Troppo spesso nella pratica ci focalizziamo solo sulle tecniche acquisite o da acquisire e quanto poco sull’intenzione che sviluppiamo in un’azione. Proviamo invece ad entrare nelle nostre vṛtti ma con la massima consapevolezza e distacco possibili. La pratica è un’occasione per trascendere tutti quei meccanismi legati all’azione che abitualmente ci guidano e che ci allontanano dalla nostra più vera e più pura realtà esistenziale, quindi la pratica di yoga è in realtà più un levare, un lasciare, che un mettere. Se troviamo la nostra posizione, non quella che gli altri ci dicono di fare, siamo felici, siamo in armonia, lasciamo fare al corpo, il corpo sa qual è la posizione più adatta, l’azione il corpo la farà al meglio, lasciamoci coinvolgere nell’azione attraverso l’ascolto delle sensazioni diverse che nascono dalle differenti posizioni, dall’azione del respiro, e se nascono dei pensieri che non vanno nella direzione degli yama e niyama, lasciamoli scorrere, senza trattenerli, come un’osservatore esterno e automaticamente questi pensieri iniziano a sbiadire. Non scambiamo però il vairāgya per indifferenza, il lavoro lo facciamo con tutto il cuore, con intensità, con consapevolezza, e allora la mente abituale, automatica, perde di vigore, sbiadisce rispetto alla potenza del vissuto del momento presente. Il vissuto lo nutriamo invece con gli attivatori subliminali, le linee guida, le intenzioni nelle azioni. Per ognuno di noi c’è una ragione per la quale ci troviamo a vivere sulla terra e questo motivo lo possiamo scoprire quando la mente si rilassa e rallenta. Ogni azione che nasce potrebbe essere in accordo alla nostra natura interiore più vera, al nostro dharma e allora nasce la felicità perché l’azione è senza sforzo, perché è un’azione che facciamo non per ottenere qualcosa, ma perché corrisponde al nostro sentire più vero e si riduce il legame con l’ego. Ecco che l’azione dello yogi è di supporto ad una trasformazione interiore dell’essere umano, non per allontanarsi dalla vita ma per comprendere maggiormente le nostre esistenze.

Immagine Fiamma Brighi, Marocco 2024